Il quartiere di Rozzol Melara, Trieste

Il quartiere residenziale di Rozzol Melara è un gigantesco insediamento situato nella periferia di Trieste progettato nella seconda metà del Novecento come una città autosufficiente, molto confinata e luogo di vita per persone fragili e minoranze,  con una visione utopisticamente ottimista per 2500 abitanti. 

Viene progettato da un folto gruppo di architetti tra il 1968 e il 1982, e condivide dimensioni e visione con altri celebri esempi italiani associati all’architettura brutalista, come le vele di Scampia, lo ZEN di Palermo, il Corviale di Roma, il “biscione” di Genova: tutti edifici realizzati intorno agli anni Settanta, di stampo razionalista che con le loro dimensioni e le loro utopie architettoniche sono diventati ghetti relegati ai margini della città.

Conosciuto anche come Il quadrilatero per la sua disposizione in pianta, formata da due grandi L di 200 metri per lato che arrivano fino a un’altezza di 14 piani, scelta legittimata dalla posizione dell’area di progetto (in pendenza), Rozzol Melara ha anche un altro nome sinonimo di quella immagine collettiva dell’architettura del periodo, fatta di buoni propositi e cemento a vista: Alcatraz, la prigione più famosa al mondo, in cui venivano detenuti i criminali più efferati e pericolosi.

Questa visione utopistica, che spinge alla progettazione dell’edificio, deriva da una corrente di pensiero che viene sviscerata dall’architetto francese Le Corbusier nei primi decenni dello scorso secolo, ben prima della costruzione del quartiere popolare di cui stiamo parlando e per questo significativo di quanto le teorie socio-architettoniche in questione abbiano influenzato le scelte progettuali che al momento sembrano anacronistiche.

Infatti, l’edificio comprendeva una serie di spazi destinati alla “vita di comunità” offerta ai suoi abitanti, insieme a servizi e destinazioni d’uso che immaginavano uno sviluppo futuro “diverso”, come si era visto anche nel caso del Villaggio del Sole a Udine. Ci si riferisce, per esempio, alla strada carrabile che taglia diagonalmente l’area interna del quadrilatero, sintomo di una ricerca di comodità e autosufficienza figlie di una politica progettuale del boom economico, che, però, non si aspettava una diffusione dell’uso dell’automobile e degli spostamenti in generale del millennio successivo.

L’idea di progetto semina nell’area del quartiere popolare una serie di disposizioni che dovevano essere utilizzate per vivere lo spazio pubblico e permettere alla sua popolazione di abitare insieme tali spazi. Nelle foto d’archivio si vedono delle piccole piazze nel verde progettato tutto intorno, grandi corridoi e collegamenti a ballatoio orizzontali che dovevano unire le varie parti del quadrilatero. 

Lo spazio vuoto al centro, una gigantesca corte interna di 3 ettari, diventa però “terra di nessuno”, un luogo difficile da attraversare perché sotto l’occhio attento delle finestre che vi si affacciano e controllano i movimenti degli “estranei”, che forse non conoscono le regole implicite che governano quel posto

Grandi spazi vuoti, ampi, cementati per la maggior parte, scanditi da colonne di ordine gigante, sono palcoscenico di una vita non proprio “di comunità” come ci si aspettava, ma vuoti che vengono occupati, conquistati ed estrapolati dalla vaga definizione che gli era stata affidata: un tema comune all’interno del progetto di ricerca che si sta portando avanti.

Lo spazio pubblico, con la sua forma, ha mai funzionato? Ci si è mai sentiti legittimati ad abitarlo? In che modo?